Titolo chiaro di un libro sintetico e veloce.
Di cosa mai tratterà il libro? Il titolo è talmente esplicativo che si può solo intuire quale sia il reale argomento. Come succede per tutte le lampanti verità: si fa fatica a vederle.
Il libro raccoglie una serie di storie di donne con una matrice comune: il dolore e la resistenza al dolore. Si parla di violenza nel senso più generale del termine con una sola specificazione: maschile. Violenza degli uomini sulle donne e delle donne su stesse, quando tentano di resistere alla violenza.
Il libro non è buonista, non punta ad innalzare la donna quale esempio di pazienza e bontà e ad affossare l’uomo quale miseria in carne ed ossa, non cerca ragioni psicologiche o sociologiche, ma racconta. Racconta di talmente tante sfumature di violenza subita che alla fine del racconto, se sei donna, ti senti non "santa", non buona, non paziente, ma realmente e profondamente idiota.
Tutto il libro nasconde una domanda: perchè?
Non perchè si esercita violenza, ma perchè le donne scelgono di subirla. Scelgono. Non capita: si sceglie. Le motivazioni possono essere inconscie, conscie, socio-economiche, culturali, di convenienza; fatto sta che è una scelta o, almeno, è una scelta a partire dal momento in cui ci si accorge di subire violenza. Ossia, IMMEDIATAMENTE.
Non raccontiamoci più palle di quante siamo costrette a raccontarci: conosciamo tutte il confine tra il bene ed il male esercitati su di noi. Lo sentiamo. E’ la sensazione animale di pericolo di morte, il precipizio al cuore, l’insonnia notturna, lo strascicare del passo, le occhiaie viola, il sorriso senza luce. Per quanto assuefatte alla violenza possiamo essere, per storia personale, riusciamo sempre a riconoscerla. Anche se non ha schiaffi o insulti. Anche se è solo la velata offesa alla nostra dignità.
Basta un "cretina". Cretina a chi? Pensiamo. Cretina quell’inutile essere che ti ha dato i natali. Vorremo dire. Cretino tu che sei tanto stupido ed infimo che neanche sei in grado di riconoscere il tuo essere profondamente cretino. Questo basterebbe a ricacciare il violento nell’angolo da cui è uscito.
Si tace, si piange, lo si dice all’amica, alla mamma, al prete, ad un diario. Non lo si dice più a se stesse e si inizia a raccontare una fiaba in cui lei è dolce, docile, paziente e lui rude e prepotente. Soprattutto, prima di tutto, lei è potente, talmente tanto potente che resiste al dolore della violenza per aiutare lui a riscattarsi. Prima di tutto, lei è arrogante, superba, dipendente e spaventata.
Ci crediamo migliori di loro, ammettiamolo. Le donne sono migliori degli uomini: ce lo diciamo da sole, davanti ad un caffè con le amiche. Il lui di turno sembra un poveretto che non sa mai dove sta la roba in casa, come si fa il nodo alla cravatta, che usa le mani male anche quando dovrebbe usarle benissimo (se no la donna fugge altrove), che non parla con il cuore, che impone la ragione all’emozione, che se ha fatto carriera è perchè dietro aveva una grande donna, che è cresciuto allattato di miele fiorito da una madre che lo accudisce ancora e quant’altro. Scriverò un libro, un giorno, sulle cattiverie con cui le donne dipingono gli uomini e si dipingono mentalmente gli uomini. Credo che ne uscirà un’enciclopedia in dodici volumi.
Tutto conferma a noi che noi siamo migliori. Compensiamo così la frustrazione di essere uguali a loro e NO non si può. La parità dei diritti non esiste ancora nella pratica, non è prassi abituale, quindi non siamo uguali. Il tetto ed il burrone di cristallo sono fenomeni reali delle organizzazioni, quindi no non siamo uguali. Noi non tutelate, loro sempre tutelati. Non siamo uguali. Qualcuno mi spieghi, però, perchè automaticamente ci crediamo superiori. Disuguale non implica il superiore. Si può essere disuguali stando su piani paralleli. Non sia mai: le donne sono più abili degli uomini. Qualcuno allora mi spieghi perchè cotanta abilità non è investita nel progettare una fuga colossale, di massa, dalla violenza?
Perchè noi esseri superiori accettiamo, scegliamo, di subire violenza?
Il libro ribalta l’ottica con cui si guarda alla vittima ed al carnefice, senza scendere in particolari raccapriccianti o addentrarsi in indagini psicologiche che farebbero ribrezzo pure a Freud. Vittima e carnefice si scelgono. I criteri di scelta? A prima vista, quanto potresti funzionare bene come carnefice e quanto come vittima? Ognuno di noi, ha nel suo immaginario l’orco, la strega, la fata, l’angelo custode. In noi conteniamo la malattia e la cura, la violenza ed il lenitivo, il cattivo ed il buono. Alcuni di noi, hanno collegato a questi concetti esperienze forti della loro esistenza e la coazione a ripetere fa i suoi disastri. Legge universale del funzionamento mentale: coazione a ripetere. Vale per tutti, vittime e carnefici, sante e puttane, bastardi e salvatori, onesti e corrotti, famosi ed infami. Una legge di base e mille direzioni di vita.
Ma il punto è un altro.
Stamattina, mi sono svegliata ed ho pensato al "perchè" che il libro pone. A quante situazioni quotidiane sembrano normali e, invece, dall’esterno si vede la loro violenza (implicita ed esplicita). Quante volte, il credersi superiori agli uomini abbia condotto le donne a peccare di superficialità. Quante volte, questa superficialità a scatenato violenza anche nella forma (non meno grave dello schiaffo) dell’umiliazione.
Molte sono le forme di potere di una donna e molto perverse sono le modalità con cui questo potere si esercita. Molto violente possono essere le conseguenze dell’utilizzo. La direzione che prenderà un’azione non è prevedibile nelle relazioni se non in condizioni di pura incarnazione di clichè. Praticamente impossibile. Eppure nella violenza di coppia i clichè costituiscono le regole del gioco: umiliazione-negazione-frustrazione-diversivo-violenza doppia-perdono-colpa-introiezione della colpa-violenza autoinferta-umiliazione-negazione-frustrazione e così via. In una catena simile, si conosce la fine se la si mette. L’inizio è ignoto.
E’ sufficiente analizzare la vita sessuale di una coppia mediamente insoddisfatta per capire di cosa sto parlando.
Il potere femminile, però, in queste condizioni è un’illusione. Credersi potenti in questo gioco è già una forma di violenza verso se stessi.
Talvolta le donne confondo la seduzione con il potere seduttivo. Tutte questi piccoli e, all’apparenza, irrilevanti fraintendimenti derivano sicuramente dalla socializzazione primaria. Peccato che non restino confinati in quella sfera, ma tendano a debordare nella vita quotidiana di un adulto!!!
La seduzione è il gioco perverso di potere in cui chi seduce subisce il fascino della seduzione stessa e chi è sedotto manda un sottile richiamo, un canto di sirena, al seduttore. Chi detiene il potere, allora? Se vogliamo tagliarla corta, si può dire che il potere è della seduzione stessa. Un po’ astratto, ma risolve ogni disputa sul tema.
Le donne vivono di queste finte realtà. Lo fanno perchè al mondo si sentono sole e deboli, perchè temono il maschio esattamente come accade in natura e sentono il bisogno di controllarlo (e controllare la paura di lui) con ogni mezzo. Meglio se subdolo per non farlo irritare. Meglio se si edulcora il veleno. Sono processi primari dai quali non possiamo discattarci e sui quali costruiamo intere culture. La cultura maschilista è un fatto di donne. Gli uomini cementano i mattoni, ma chi li impila uno sull’altro sono le donne: la fonte dell’insight per ognuno di noi, la base della sopravvivenza almeno fino al nostro diciottesimo mese di vita, la prima fonte di emulazione ed il solo oggetto d’amore che non è dato di possedere.
Da un lato, quindi, costruiamo in maniera geniale un ambiente a noi ostile, dall’altro ci crediamo stupidamente così forti da volere abbattere non solo l’ambiente ma anche tutti gli orchi che lo popolano. Fin qui, va tutto bene. E’ il "come" che fa davvero pena. Violenza contro violenza, no non si può, non è socialmente corretto. Non violenza sulla violenza, molto poetico ma distruttivo. Non violenza sulla non violenza: l’Eden sta in un libro molto interessante, non ci sono prove della sua esistenza terrena. Nel dubbio, preferiamo la seconda opzione che, stando al comune pensare, si adatta molto bene all’idea di eterna bambina da adorare, di madre custode ed eterna, di silente base sociale. Almeno, si salva la faccia. Cosa non vera quando si fa buon viso a cattivo gioco ed il cattivo gioco consiste in secche manate da staccare la testa.
Che senso ha resistere, pazientare, cercare di comprendere, in queste situazioni? Noi costruiamo. Noi distruggiamo. Sembra facile. Chi ha mai detto che non lo sia…
Un capitolo del libro è dedicato ad una libera professionista, con tanto di studio pulito ed accogliente, e segretaria in rigorosissimo golfino nero-pantalone-tacco basso-coda di cavallo. Dettaglio: al centro dello studio, troneggia…un letto. L’organizzatissima e ricchissima prostituta si definisce tra le righe dell’intervista "padrona". Lei serve. Loro pagano. Lei fa quasi del bene. Loro si umiliano chiedendolo. Dov’è l’inganno in questa visione? Il debole racconta una storia al forte, dicendo che lui è più forte di tutti e la sua forza sta nell’essere cercato, nell’essere indispensabile ad un equilibrio. Il forte ascolta la storia, sghignazza dentro di sè, ma resta serissimo fuori. Finge di sentirsi umiliato, ma, intanto, lui resta il forte, il debole diventa anche scemo. Raccontati le balle che vuoi tanto ti sbrano lo stesso.
Chi fa del suo corpo una merce usa se stesso (anima e corpo, intendo) come strumento di soddisfazione. Chi gode di quest’utilizzo tagliuzza il corpo in parti infinitesimali e se le porta ogni giorno dietro, un po’ per volta, fin quando al venditore non resta neanche più l’anima.
Raccontiamoci le balle che vogliamo, care signore, ma non è forte chi resite all’umiliazione, alla violenza, che fa giochi perversi con la purezza della seduzione, chi si rende indispensabile per legare a sè un uomo, chi pazienta di fronte ad un insulto, chi non medita vendetta, chi non apre mai la bocca per uccidere il cattivo, chi si copre il viso con occhiali e fonditinta, chi resiste al dolore.
Non siamo migliori, non siamo superiori, non siamo nate per soffrire, anche se nella Bibbia a questo siamo condannate, non siamo più belle perchè diamo la vita, non siamo più buone perchè giochiamo con le bambole. Siamo esattamente come loro. La sola differenza: è che noi tendiamo a diventare carnefici di noi stesse, prima ancora che lo faccia l’altro. Il perchè non serve. Serve spaccare non un anello, ma tutta una catena. Talvolta, la forza sta nel lasciare. Lasciar perdere. Lasciar cadere. Lasciare che l’altro esaurisca su qualcun’altro la sua violenza. Scrollare le spalle e dire: "vedi, io sono diversa da te: tu resti con la tua violenza, io te la lascio volentieri".
Sembra facile. Chi ha mai detto che non lo sia….
Con provocazione estrema.
R-