C’è grossa crisi

Alcuni di noi sono stati spettatori della nascita di un personaggio televiso eccezionale: il santone Quelo. Correva l’anno 1997, la trasmissione era il “Pippo Chennedy Show” e l’era informatica più che essere alle porte si stava già infilando le ciabatte per accomodarsi nelle case di tutto il mondo.
La prima rivelazione del profeta era “c’è grossa crisi”, cui faceva seguito “la gente non sa più quando stiamo andando, la gente non sa più quando stiamo facendo.” La conclusione era che “la risposta è dentro di te e però è sbagliata”.

Siamo nel 2011, esattamente 14 anni dopo la nascita del santone Quelo, e tutte quelle che un tempo sembravano divertenti derisioni della società contemporanea, oggi sono la lucida e spietata descrizione di una società persa e dispersa. Non sappiamo davvero più “quando stiamo andando”: non solo non conosciamo il “dove”, ma abbiamo perso anche la concezione del “momento”.
L’era informatica e tecnologica ha reso fluide tutte le nostre azioni, quasi azzerando lo spazio ed il tempo. Tutto è fluido, talmente tanto fluido da essere sfuggente e talmente tanto sfuggente da essere inesistente.

Ben venga il forno a microonde che si accende automaticamente ad una data ora, senza la necessità del mio dito che pigia il pulsante dello “start”. Ben vengano Facebook, Twitter, blog e blogger, siti web e web designer. Ben vengano i pannelli fotovoltaici, tutor stradali e autovelox. Ben vengano i netbook, i notebook, gli I-phon, la Wii, l’X-Box. Ben venga tutta la tecnologia, anche quella che quotidianamente non vediamo, non usiamo, ma che c’è.

La crisi non è nelle cose di cui disponiamo. Nessun pc e nessun telefono cellulare possono, da soli, rendere l’Uomo talmente fluido da essere inesistente. Nessuna “macchina”, di per sè, può piegare l’ordine sociale costruito dalla mente umana.
A meno che… non ci sia connivenza da parte dell’essere umano.

Ora, guardiamoci ben bene negli occhi. Ognuno guardi se stesso ed il vicino di casa, di scrivania, di postazione sul bus, di corsia davanti al semaforo. Quelle persone lì, compresa la persona che avete visto allo specchio, quanto quotidianamente traggono vantaggio dall’essere inesistenti? Quanto conviene a tutti noi l’essere “fluidi” e affidarci alla tecnologia per poi incolparla di averci resi schiavi?

E’ più facile imparare ad accendere un pc che presentarsi ad una nuova persona.
E’ più facile scrivere su un blog questa riflessione piuttosto che spegnere pc e cellulare, senza l’ansia del “e se qualcuno mi cerca e non mi trova?”

C’è grossa crisi…

(dedicato alla sociopatia comune)

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Eccomi

Dopo un po’ di silenzio e molto moltissimo stress…eccomi.
Sta per finire il mese di Marzo ed è quasi un mese che lavoro gratis e senza contratto.
Qui funziona così: "Pagherò".
Si accetta il ricatto per il semplice fatto che attorno non c’è nulla e perchè si spera che i contatti creati si ricordino di te al momento opportuno.
Opportuno per te, ovvio.
Se sono stanca di questa situazione? Direi esasperata. Stanca è troppo poco.
Ed ogni giorno penso che dovrei avere il coraggio di mollare le chiavi sul tavolo di qualcuno, dire "ora apre lei l’ufficio" e andarmene.
Tanto senza lavoro o con il lavoro così com’è adesso, la sostanza non cambia: non riesco a pagare affitto e bollette ugualmente.
Senza lavoro, però, mi sento perduta.
Arriva un momento della vita di una persona in cui è fondamentale "fare qualcosa". E’ basilare lavorare, perchè la tua quotidianità è fatta del ruolo professionale che ricopri e di ciò che riesci a fare con i soldi che guadagni. Pian piano i sogni si spengono e diventano obiettivi lavorativi. Eppure, se mi guardo allo specchio vedo lo sguardo di chi si sveglia alle 6.30 ogni mattina, indossa una professione e se la toglie solo a volte prima di andare a dormire.
Il lavoro riempe la vita, a tratti talmente tanto che è la vita a fuoriuscire dalle fessure del lavoro.
I titoli professionali che abbiamo, i luoghi in cui lavoriamo, il lessico che utilizziamo sul lavoro diventano "noi" a tal punto che la seconda domanda che facciamo ad una persona appena conosciuta è "cosa fai di lavoro?". Come se la professione dicesse di più di quanto possa dire di sè il diretto interessato.
A quindici anni chiedi "che cosa studi", a venti "dove studi", a trenta "che lavoro fai", a quaranta "sei separato", a sessanta non chiedi più niente. Perchè è l’età di minimo produttivo a livello sociale, quindi non hai più molto da dire.
Io il mio lavoro lo sento su di me anche per altri motivi più strettamente personali. Lo sento perchè sono nell’età in cui tutti vorrebbero riempirsi di parole legate a carriere folgoranti ed introiti da sceicchi. Invece….lavoro gratis, senza contratto, da quasi un mese, in un posto in cui lo slogan è "pagherò" e lo sfruttamento fa il paio con la prepotenza per creare il clima ideale per una crisi di nervi al giorno.
Se sono scema? Sì, ovvio, perchè resistere non mi fa pagare l’affitto, ma è lavoro ed ho trent’anni ed io ho ancora bisogno di potermi riempire di parole che sanno di prestigio.
 
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In amore….

…vince chi ama.
Siamo sicuri?
 
Da una conversazione amichevole:
 
[omissis]
"…e questa volta, ho la fortuna di essere la parte meno presa!".
 
Come dare torto?
Non parlo di assoluto menefreghismo, ma di quel po’ di distacco, di quel "po’ di meno" che ti permette di non patire troppo, di non rimaner male per una mancanza, per l’essere sereni di fronte a qualsiasi turba mentale dell’altro, di prendere a ridere i difetti.
Quel po’ di sano distacco che ti permette di non aspettare telefonate che non arrivano.
Quel po’ di sano distacco che ti fa pensare SERENAMENTE "che sarà, sarà".
 
E’ disamore?
No. E’ solo "un po’ di distacco".
 
Tipico femminile è struggersi d’amore. Mi chiedo se lo si faccia per il gusto di struggersi (e di di-struggersi) o per l’amore in sè.
Nel mio ideale, è vero che struggimento e amore non vadano d’accordo, che le Grandi Storie d’Amore non sono tormentate, ma sono briose, e che l’Amore è bello se non è litigarello. E, soprattutto, è vero che in amore vince chi ama…con il giusto distacco.
Non credo nell’istinto materno ed ancor meno credo che la tendenza allo struggimento per amore tipico delle donne derivi dall’istinto materno, dal desiderio biologico incotrollabile di attaccarsi ad ogni fonte d’amore per crearne altre. Ma per favore!
Le donne si struggono, spesso e volentieri, perchè vogliono averla vinta.
Al cuor non si comanda???? Siamo sicuri???
 
Da una conversazione in palestra:
[omissis]
"Al cuor non si comanda, va bene, ma almeno lo si può istruire!"
Ovvero, in amore si impara e se il cuore non sente ordini, è comunque un soggetto in apprendimento.
Bella prospettiva. Mi piace.
Essere nella posizione della parte "presa un po’ meno" è frutto di un lungo apprendimento, nel corso del quale si ha acquisito conoscenza di sè e dei propri limiti (di sopportazione), si ha fatto esperienza di un tot di giochi relazionali, successivamente selezionati e catalogati ("tollerabile", "intollerabile", "tollerabile solo se colpita da meteorite", etc), si sono appresi i rudimenti delle nostre difese affettive e della nostra personalissima velocità ottimale di cammino all’interno di una relazione.
C’è chi vede il "po’ meno presa" come un limite, chi come un punto arcaico di partenza… e scommetto che chi la pensa così è uomo!
 
Posso garantire: per una donna, quello è un traguardo. ENORME. Ma è pur sempre il punto di partenza per un nuovo apprendimento.
 
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“Esercizi di resistenza al dolore”

Titolo chiaro di un libro sintetico e veloce.
Di cosa mai tratterà il libro? Il titolo è talmente esplicativo che si può solo intuire quale sia il reale argomento. Come succede per tutte le lampanti verità: si fa fatica a vederle.
Il libro raccoglie una serie di storie di donne con una matrice comune: il dolore e la resistenza al dolore. Si parla di violenza nel senso più generale del termine con una sola specificazione: maschile. Violenza degli uomini sulle donne e delle donne su stesse, quando tentano di resistere alla violenza.
Il libro non è buonista, non punta ad innalzare la donna quale esempio di pazienza e bontà e ad affossare l’uomo quale miseria in carne ed ossa, non cerca ragioni psicologiche o sociologiche, ma racconta. Racconta di talmente tante sfumature di violenza subita che alla fine del racconto, se sei donna, ti senti non "santa", non buona, non paziente, ma realmente e profondamente idiota.
Tutto il libro nasconde una domanda: perchè?
Non perchè si esercita violenza, ma perchè le donne scelgono di subirla. Scelgono. Non capita: si sceglie. Le motivazioni possono essere inconscie, conscie, socio-economiche, culturali, di convenienza; fatto sta che è una scelta o, almeno, è una scelta a partire dal momento in cui ci si accorge di subire violenza. Ossia, IMMEDIATAMENTE.
Non raccontiamoci più palle di quante siamo costrette a raccontarci: conosciamo tutte il confine tra il bene ed il male esercitati su di noi. Lo sentiamo. E’ la sensazione animale di pericolo di morte, il precipizio al cuore, l’insonnia notturna, lo strascicare del passo, le occhiaie viola, il sorriso senza luce. Per quanto assuefatte alla violenza possiamo essere, per storia personale, riusciamo sempre a riconoscerla. Anche se non ha schiaffi o insulti. Anche se è solo la velata offesa alla nostra dignità.
Basta un "cretina". Cretina a chi? Pensiamo. Cretina quell’inutile essere che ti ha dato i natali. Vorremo dire. Cretino tu che sei tanto stupido ed infimo che neanche sei in grado di riconoscere il tuo essere profondamente cretino. Questo basterebbe a ricacciare il violento nell’angolo da cui è uscito.
Si tace, si piange, lo si dice all’amica, alla mamma, al prete, ad un diario. Non lo si dice più a se stesse e si inizia a raccontare una fiaba in cui lei è dolce, docile, paziente e lui rude e prepotente. Soprattutto, prima di tutto, lei è potente, talmente tanto potente che resiste al dolore della violenza per aiutare lui a riscattarsi. Prima di tutto, lei è arrogante, superba, dipendente e spaventata.
Ci crediamo migliori di loro, ammettiamolo. Le donne sono migliori degli uomini: ce lo diciamo da sole, davanti ad un caffè con le amiche. Il lui di turno sembra un poveretto che non sa mai dove sta la roba in casa, come si fa il nodo alla cravatta, che usa le mani male anche quando dovrebbe usarle benissimo (se no la donna fugge altrove), che non parla con il cuore, che impone la ragione all’emozione, che se ha fatto carriera è perchè dietro aveva una grande donna, che è cresciuto allattato di miele fiorito da una madre che lo accudisce ancora e quant’altro. Scriverò un libro, un giorno, sulle cattiverie con cui le donne dipingono gli uomini e si dipingono mentalmente gli uomini. Credo che ne uscirà un’enciclopedia in dodici volumi.
Tutto conferma a noi che noi siamo migliori. Compensiamo così la frustrazione di essere uguali a loro e NO non si può. La parità dei diritti non esiste ancora nella pratica, non è prassi abituale, quindi non siamo uguali. Il tetto ed il burrone di cristallo sono fenomeni reali delle organizzazioni, quindi no non siamo uguali. Noi non tutelate, loro sempre tutelati. Non siamo uguali. Qualcuno mi spieghi, però, perchè automaticamente ci crediamo superiori. Disuguale non implica il superiore. Si può essere disuguali stando su piani paralleli. Non sia mai: le donne sono più abili degli uomini. Qualcuno allora mi spieghi perchè cotanta abilità non è investita nel progettare una fuga colossale, di massa, dalla violenza?
Perchè noi esseri superiori accettiamo, scegliamo, di subire violenza?
Il libro ribalta l’ottica con cui si guarda alla vittima ed al carnefice, senza scendere in particolari raccapriccianti o addentrarsi in indagini psicologiche che farebbero ribrezzo pure a Freud. Vittima e carnefice si scelgono. I criteri di scelta? A prima vista, quanto potresti funzionare bene come carnefice e quanto come vittima? Ognuno di noi, ha nel suo immaginario l’orco, la strega, la fata, l’angelo custode. In noi conteniamo la malattia e la cura, la violenza ed il lenitivo, il cattivo ed il buono. Alcuni di noi, hanno collegato a questi concetti esperienze forti della loro esistenza e la coazione a ripetere fa i suoi disastri. Legge universale del funzionamento mentale: coazione a ripetere. Vale per tutti, vittime e carnefici, sante e puttane, bastardi e salvatori, onesti e corrotti, famosi ed infami. Una legge di base e mille direzioni di vita.
Ma il punto è un altro.
 
Stamattina, mi sono svegliata ed ho pensato al "perchè" che il libro pone. A quante situazioni quotidiane sembrano normali e, invece, dall’esterno si vede la loro violenza (implicita ed esplicita). Quante volte, il credersi superiori agli uomini abbia condotto le donne a peccare di superficialità. Quante volte, questa superficialità a scatenato violenza anche nella forma (non meno grave dello schiaffo) dell’umiliazione.
Molte sono le forme di potere di una donna e molto perverse sono le modalità con cui questo potere si esercita. Molto violente possono essere le conseguenze dell’utilizzo. La direzione che prenderà un’azione non è prevedibile nelle relazioni se non in condizioni di pura incarnazione di clichè. Praticamente impossibile. Eppure nella violenza di coppia i clichè costituiscono le regole del gioco: umiliazione-negazione-frustrazione-diversivo-violenza doppia-perdono-colpa-introiezione della colpa-violenza autoinferta-umiliazione-negazione-frustrazione e così via. In una catena simile, si conosce la fine se la si mette. L’inizio è ignoto.
E’ sufficiente analizzare la vita sessuale di una coppia mediamente insoddisfatta per capire di cosa sto parlando.
Il potere femminile, però, in queste condizioni è un’illusione. Credersi potenti in questo gioco è già una forma di violenza verso se stessi.
 
Talvolta le donne confondo la seduzione con il potere seduttivo. Tutte questi piccoli e, all’apparenza, irrilevanti fraintendimenti derivano sicuramente dalla socializzazione primaria. Peccato che non restino confinati in quella sfera, ma tendano a debordare nella vita quotidiana di un adulto!!!

La seduzione è il gioco perverso di potere in cui chi seduce subisce il fascino della seduzione stessa e chi è sedotto manda un sottile richiamo, un canto di sirena, al seduttore. Chi detiene il potere, allora? Se vogliamo tagliarla corta, si può dire che il potere è della seduzione stessa. Un po’ astratto, ma risolve ogni disputa sul tema.
Le donne vivono di queste finte realtà. Lo fanno perchè al mondo si sentono sole e deboli, perchè temono il maschio esattamente come accade in natura e sentono il bisogno di controllarlo (e controllare la paura di lui) con ogni mezzo. Meglio se subdolo per non farlo irritare. Meglio se si edulcora il veleno. Sono processi primari dai quali non possiamo discattarci e sui quali costruiamo intere culture. La cultura maschilista è un fatto di donne. Gli uomini cementano i mattoni, ma chi li impila uno sull’altro sono le donne: la fonte dell’insight per ognuno di noi, la base della sopravvivenza almeno fino al nostro diciottesimo mese di vita, la prima fonte di emulazione ed il solo oggetto d’amore che non è dato di possedere.
Da un lato, quindi, costruiamo in maniera geniale un ambiente a noi ostile, dall’altro ci crediamo stupidamente così forti da volere abbattere non solo l’ambiente ma anche tutti gli orchi che lo popolano. Fin qui, va tutto bene. E’ il "come" che fa davvero pena. Violenza contro violenza, no non si può, non è socialmente corretto. Non violenza sulla violenza, molto poetico ma distruttivo. Non violenza sulla non violenza: l’Eden sta in un libro molto interessante, non ci sono prove della sua esistenza terrena. Nel dubbio, preferiamo la seconda opzione che, stando al comune pensare, si adatta molto bene all’idea di eterna bambina da adorare, di madre custode ed eterna, di silente base sociale. Almeno, si salva la faccia. Cosa non vera quando si fa buon viso a cattivo gioco ed il cattivo gioco consiste in secche manate da staccare la testa.
Che senso ha resistere, pazientare, cercare di comprendere, in queste situazioni? Noi costruiamo. Noi distruggiamo. Sembra facile. Chi ha mai detto che non lo sia…
 
Un capitolo del libro è dedicato ad una libera professionista, con tanto di studio pulito ed accogliente, e segretaria in rigorosissimo golfino nero-pantalone-tacco basso-coda di cavallo. Dettaglio: al centro dello studio, troneggia…un letto. L’organizzatissima e ricchissima prostituta si definisce tra le righe dell’intervista "padrona". Lei serve. Loro pagano. Lei fa quasi del bene. Loro si umiliano chiedendolo. Dov’è l’inganno in questa visione? Il debole racconta una storia al forte, dicendo che lui è più forte di tutti e la sua forza sta nell’essere cercato, nell’essere indispensabile ad un equilibrio. Il forte ascolta la storia, sghignazza dentro di sè, ma resta serissimo fuori. Finge di sentirsi umiliato, ma, intanto, lui resta il forte, il debole diventa anche scemo. Raccontati le balle che vuoi tanto ti sbrano lo stesso.
Chi fa del suo corpo una merce usa se stesso (anima e corpo, intendo) come strumento di soddisfazione. Chi gode di quest’utilizzo tagliuzza il corpo in parti infinitesimali e se le porta ogni giorno dietro, un po’ per volta, fin quando al venditore non resta neanche più l’anima.
Raccontiamoci le balle che vogliamo, care signore, ma non è forte chi resite all’umiliazione, alla violenza, che fa giochi perversi con la purezza della seduzione, chi si rende indispensabile per legare a sè un uomo, chi pazienta di fronte ad un insulto, chi non medita vendetta, chi non apre mai la bocca per uccidere il cattivo, chi si copre il viso con occhiali e fonditinta, chi resiste al dolore.
Non siamo migliori, non siamo superiori, non siamo nate per soffrire, anche se nella Bibbia a questo siamo condannate, non siamo più belle perchè diamo la vita, non siamo più buone perchè giochiamo con le bambole. Siamo esattamente come loro. La sola differenza: è che noi tendiamo a diventare carnefici di noi stesse, prima ancora che lo faccia l’altro. Il perchè non serve. Serve spaccare non un anello, ma tutta una catena. Talvolta, la forza sta nel lasciare. Lasciar perdere. Lasciar cadere. Lasciare che l’altro esaurisca su qualcun’altro la sua violenza. Scrollare le spalle e dire: "vedi, io sono diversa da te: tu resti con la tua violenza, io te la lascio volentieri".
Sembra facile. Chi ha mai detto che non lo sia….
Con provocazione estrema.
R-
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Ritorno e riparto

7 Gennaio 2009: nevica.
Sottile, leggera, candida. Neve.
A casa, al quasi caldo, dopo due settimane in giro.
Scendo dal treno, mi guardo attorno e mi chiedo cosa ci sto a fare qui. Nulla mi lega a questo posto. Ho tentato la fuga tempo addietro, ma mi sono fermata per un lavoro che non mi interessava. La verità è che avevo paura e che vorrei essere una e trina per non poter scegliere mai.
O qui o altrove.
A distanza mi chiedo sempre se potrebbe mancarmi questo posto e tutto ciò che ha contenuto in dodici anni. Poi, mi accorgo che penso solo al passato, ai ricordi, e che le memorie sono contenute in me e con me verranno ovunque. Sicuramente, la paura di un passo falso mette le ganasce ai miei piedi. Ho già sbagliato una volta e non perdono un secondo errore.
Mia cugina sostiene che, se non ci sono particolari controindicazioni, bisogna tentare tutte le strade e rischiare il rischiabile. Meglio vivere di rimorsi che di rimpianti. Dice anche che al limite si torna indietro e ci si raccoglie con il cucchiaino. Un bel pensiero, da donna forte, che non tiene conto del fatto che l’ho già fatto e da me mi aspetto di non commettere due volte lo stesso errore. Sono passati anche anni ed alla soglia dei 32 non mi perdono un errore di valutazione da ventenne senza esperienza.
E’ anche vero che l’esperienza è qualcosa che si acquisisce agendo e vivendo, che si sperimenta concretamente, e che ogni evento, possibilità, scelta è una fonte di esperienza. La contraddizione è, quindi, intrinseca: non sono una ventenne senza esperienza, ma nel mio stato attuale non ho esperienza rispetto al passo che potrò compiere. Sono quindi una quasi trentaduenne senza esperienza specifica.
Cosa cambia con l’essermi data una definizione simile? Nulla. L’ansia resta così come restano la paura e l’eccitazione.
Potrebbe essere una nuova vita, frustrante non più dell’attuale dal punto di vista lavorativo, soddisfacente più dell’attuale dal punto di vista sentimentale, alienante più dell’attuale dal punto di vista della vita quotidiana.
Andrei a stare in un luogo venti volte più grande di questo, senza conoscere nessuno, senza nessuno che inizia con me la strada. Sola intimamente come un cane. Neanche il mio traferimento a Genova ha avuto queste caratteristiche ed uno dei motivi corollario che mi ha trattenuto dal traslocare a Sarzana è stata proprio l’esistenza di queste caratteristiche.
Cosa penso della mia possibile destinazione? Che è comunque Italia, quindi tutto il peggio possibile. Non mi aspetto grandi cose da quella città, che è bella solo per i turisti ed intollerabile per chi è abituato alla mentalità ligure. Una città comoda e cafona, lenta e prepotente, sofisticata e falsa, mai chiara e diretta, formale e volgare, arrogante e caotica, infinita e deturpata, variegata e sempre uguale a se stessa.
Per chi vive a Genova e si desbelina ogni mattina, camminare lungo le vie di quella città è da esaurimento nervoso. Nessuno si desbelina. Tutti si ammirano e rimirano, nel pieno dell’ottica dello struscio.
A Genova, lo struscio è sempre una corsa da un punto all’altro del centro.
I genovesi camminano nervosi, scattanti, veloci. Sembra sempre che rincorrano il tempo. Hanno il passo schietto di chi per strada può anche dirti "belin però ti muovi?". Hanno in faccia la chiarezza ancestrale di chi è nato in mare e si rimbocca le maniche sempre e comunque. Di chi sta solo su un porto. Di chi ha parlato per lungo tempo solo con la distesa azzurra davanti a sè.
Gli altri, così identifico gli abitanti della mia destinazione, hanno l’arroganza dei padroni del mondo. Sorridono per ucciderti, nascondono il nervosismo dietro una camminata docile e dondolante. Li guardi in faccia ed hai l’impressione che tutto quello che vedi è polvere su un mobile: la loro verità forse è l’arroganza o forse l’indolenza. Come nel parlare. Allargano, calcano, strisciano vocali e consonanti, come se un discorso dovesse necessariamente durare più del necessario.
A Genova, il discorso dura il tempo della ricezione da parte del destinatario ed il significato sta nelle parole. Dall’altra parte, cerchi il significato nelle parentesi. La verità sta nascosta, all’insegna dell’ipocrisia.
Mi abituerò mai? Credo di no. Ma so fare buon viso a cattivo gioco e forse l’esperienza mi insegnerà a farlo ancora meglio.
Cosa vince su tutto? Sulle paure mie, sulla repulsione verso gli abitanti della destinazione, sull’immensità e la dispersività del luogo, sull’incertezza e sulla preoccupazione? Un uomo. Ma non solo. Io, prima di lui. La tensione non sopita di tentare il nuovo. La spinta interiore che è anche quella di cui parla mia cugina.
Ogni luogo può essere un regno dorato o una gabbia arrugginita.
Sola, avrei tentato nuova vita? Non subito, ma sì, lo avrei fatto. Finito il capitolo lavorativo ancora in piedi, per poco per fortuna, mi sarei chiusa nel mio guscio di insoddisfazione e mi sarei mossa solo quando l’insoddisfazione mi avrebbe schiacciata.
Avrei aspettato ancora qualche tempo, immobile, ripetendo una vita che mi sta stretta da anni ormai.
Poi, avrei infilato 4 cose in valigia e sarei partita alla disperata.
Ho realizzato quanto desiderassi realmente tentare nuove vie con Losanna. Una chimera servita su un piatto d’argento e sbranata da altri.
Quell’occasione è stata l’occasione per realizzare che, per quanto ami questa città, non mi basta più.
La media genovesità mi stringe i polsi. La scarsità di risorse mi soffoca. Non sono fatta per stare ferma in eterno. Cerco la soddisfazione personale sotto tutti i punti di vista e posso soffocare i desideri per lungo tempo, ma non per sempre.
Questa la base. Si aggiunge il fatto che la mia soddisfazione è anche sentimentale.
Una regola governa i miei movimenti: o per il lavoro della mia vita o per un grande amore.
 
Scende la neve leggera ed io mi sento come lei. O per il lavoro della mia vita o per un grande amore. Sicuramente, per la mia soddisfazione.
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AUGURI

A coloro che si sono persi e non si ritrovano più,
alle storie finite, che finiscono, che si rinnovano, che iniziano,
all’amore, all’odio, al rancore, alla rabbia, al dolore, alla gioa,
ai giorni persi con la testa tra le mani,
a quelli in cui si è riso a crepapelle,
alle persone che non esistono più e a quelle che ci sono oggi come sempre,
ai ricordi, ai rimpianti, ai rimorsi, ai pensieri migliori ed alle peggiori verità,
a chi non ha pace e a chi non la vuole,
a chi vive in guerra come me… auguri.
 
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Mondo di uomini, mondo di serpi

Lavorando in ambienti prettamente maschili (e maschilisti), ho imparato che dieci amiche al bar riescono ad essere meno impietose di quattro uomini in pausa caffè.
In quanto donna in ambiente maschile, quindi soggetta alle interpretazioni di ruolo più varie e variegate possibile, sono stata e sono soggetto di pettegolezzi di ogni genere.
Se questi pettegolezzi fossero veri, a quest’ora avrei dovuto avere una ventina di relazioni negli ultimi 5 anni, due delle quali da amante vera e propria, essendo i "lui" in questione mariti.
La reazione immediata a queste dicerie è la rabbia. Si temono le ripercussioni in campo lavorativo. Ad una donna il calcio nel sedere viene dato più facilmente che ad un uomo. A meno che non sia la donna del capo, ma questo è tutt’altro discorso.
Poi, sfogata la rabbia, si fanno un paio di passi indietro e si guardano le dinamiche del pettegolezzo. Fortunatamente, io sono sempre l’ultima donna dell’ambiente a cui il pettegolezzo si attacca e l’esperienza indiretta delle colleghe può essere d’esempio comportamentale. Non è vero che l’indifferenza instilla il dubbio circa la fondatezza del pettegolezzo. In alcuni casi, la battuta tagliente mette a tacere più voci di quanto lo faccia un comportamento da "sono santa e nessuno mi tocca".
Al di là del comportamento ideale, mi interessano i motivi e le dinamiche dei pettegolezzi maschili.
Il pensiero comune è che siano le donne a malignare costantemente, quindi 3 donne in un ambiente composto da 30 uomini dovrebbero avere materiale di invenzione e discussione per tutti gli anni fino al pensionamento. Non è così.
Scatta qualcosa di perverso, per il quale le donne sono assorbite dal dimostrare di valere più degli uomini e, alla macchina del caffè, parlano di lavoro o di lavatrice o di casa da riordinare. Se in giro ci sono uomini, parlano di lavoro.
Gli uomini sono rilassati, perchè sono il sesso forte, sono il potere nell’ambiente soprattutto perchè costituiscono la maggioranza. Ed è curioso vedere come dinamiche di gruppo si mescolano a dinamiche sessuali o sessualmente caratterizzate. Tutto avviene a livello di "assunto di base", direbbe Bion. E allora per quale motivo io dovrei funzionare su un livello superiore? Per nessun motivo.
Mi adatto al livello, anche perchè il nemico o lo combatti ad armi pari o lascia perdere la battaglia. Non è una questione di onestà, ma di strategia. L’onestà cessa di esistere nel momento stesso in cui il pettegolezzo esce dalla bocca del primo narratore.
 
Eppure, ci si diverte. Guardi gli altri, i pettegoli, e pensi che sono davvero miseri se riescono a produrre delle cazz… simili!
E poi…mai che la donna di turno se la faccia con il migliore del gruppo! No. Mai. Sempre con uno a caso. E qui ti girano perchè va bene rischiare il posto per una maldicenza, ma per lo meno diamo una mano all’autostima.
 
Nell’ultima occasione in cui sono stata oggetto di pettegolezzi, devo ammettere che c’è dell’implicita stima. Mica hanno scelto gente a caso!!! No, a quanto pare io ho relazioni con vari esponenti del potere o con collaboratori del potere considerati validi dalla maggioranza. Indirettamente, mi stanno dicendo che ho gusti, e posso permettermi, il meglio dell’ambiente e ciò implica della sottile stima.
Ciò non toglie che sono donna e sono attualmente la minoranza per di più precaria e vulnerabile. Resta il fatto che se l’intenzione era far fuori la mia testa, c’era da attendere qualche mese ancora e poi il processo sarebbe stato naturale. Per lo meno, non avrei provato schifo per l’ennesimo gruppo di uomini davanti ad una macchinetta del caffè.
Il resto dei miei pensieri resta mio pensiero, dal momento che c’è chi legge questo blog e si sente chiamato in causa. Non è detto che alla disonestà io risponda con la disonestà di uno sfogo chiaro sul web. Preferisco i confronti. Preferisco rimanere ancorata agli assunti di base. Laddove la rabbia si sfoga a pelle senza alterare la carica distruttiva e denigrante. Laddove la delusione si legge negli occhi ed è schifo più che delusione. Laddove non esiste gruppo, non esiste uomo, non esiste donna, ma tutti sono puri animali.
Il mio ambiente naturale.
 
 
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Un po’ di varie

In questi mesi di silenzio stampa, o silenzio blog, ho avuto modo di guardarmi in giro, osservare le persone camminare per la loro vita. Da fuori, talune sembrano sciolte, altre faticano a mettere un piede davanti all’altro. Altre ancore volano o non camminano proprio.
Tutto sta nei criteri con cui si vive e nella rigidità dei criteri con cui si vive.
 
Un film visto non moltissimo tempo fa (un anno? sei mesi? non ricordo di preciso) iniziava con il protagonista principale che diceva: "sono le cose che non scegliamo a determinare il nostro carattere, a renderci ciò che siamo: la famiglia, il posto in cui vivi, il tuo quartiere, le persone che lo abitano, i compagni di scuola….".
Un pensiero in controtendenza rispetto alla mente collettiva contemporanea che vuole l’uomo iperdecisionista ed autodeterminato.
Il pensiero corrente è "siamo ciò che deicdiamo di essere". In parte è vero, in parte non lo è. Noi siamo qualcosa determinato alla nostra nascita (e qui si parla di "temperamento"); il carattere è una proprietà evolutiva che s’innesta sul temperamento. Sul carattere incidono i fattori socio-ambientali e le progressiva modifiche che noi apportiamo a noi stessi a seguito dei feddback esperienziali.
Il temperamento non cambia. Il carattere sì.
Io non mi sveglierò domani calma, paciosa, lenta, introversa, silenziosa. Io mi sveglierò domani e sarò ancora "istruttrice di aerobica" dentro.
Lo sono dalla nascita e questo non si cambia.
Io mi sveglierò domani e magari avrò imparato ad essere meno fiduciosa negli altri. Questo è carattere modificato dall’esperienza.
 
Questo per dire che molto del modo in cui viviamo o abbiamo vissuto non è riscrivibile. Talvolta, però, sono i piccoli dettagli a fare la differenza.
Basta allentare un freno e le situazioni si sciolgono da sole.
Ognuno di noi ha un personaggio, un’identità pubblica ed una privata, una sociale ed una personale. Il punto di contatto tra tutte queste è un posto dentro ognuno di noi che viene fuori solo nei particolari. Nel modo in cui una persona crea relazioni, si allaccia le stringhe, valuta o giudica il mondo esterno, pensa a se stesso, il motto di spirito, il lapsus, il modo in cui ci si cura o non cura di se stessi. Sembrano macro-comportamenti, ma in realtà sono piccoli dettagli rispetto a ciò che ognuno di noi quotidianamente fa.
Un tipico esempio di incrocio tra le varie identità è la morale. Direi che un’esauriente spiegazione di questo vocabolo lo si può trovare qui: http://www.ipertesto.net/m/morale_53038.html
 
In questi mesi, ho avuto spesso a che fare con l’altrui morale. E con la mia. Che è, ovviamente, differente per storia dalla morale più comune. Ecco, questo termine già mi sa di repressione. "Comune". Il motivo è in quello che ho visto.
Le persone giudicano moralmente bassi i comportamenti di cui socialmente non ci si vanta ed individualmente si disprezzano. Esempio: tradire. Verso il tradimento, agito o subito, nessuno è massimamente sereno. Per due semplici motivi: rabbia e senso di colpa. Nient’altro. In noi, da traditi e traditori, non scatta nulla di morale, ma funzioniamo in "assunto di base" (direbbe Bion). Ossia, scatta la parte più primitiva ed arcaica di noi.
Ho sentito dire questa frase: "non si può tradire un marito". Più che un’affermazione, è un imperativo categorico. Il "non si può" è in realtà un "non si deve". Una legge morale dietro cui ci si nasconde per un semplicissimo motivo: il tradimento dopo un patto solennemente celebrato al cospetto di Dio (ossia, della nostra massima entità morale, del Super Io fatto a massima trascendenza e massima proiezione) è il top del top del senso di colpa!!!!
Nessuno di noi ama particolarmente sentirsi in colpa. Non è che si viva proprio allegramente in quelle condizioni! Meglio arrabbiati che colpevoli.
 
Ho sentito dire quella frase da una persona che avrebbe serenamente tradito sua madre.
Qui sta l’intreccio affascinante delle varie identità e qui sta anche il contorcersi in se stessi che impedisce di andare avanti, di trasformare il carattere in qualcosa di sempre più efficace dal punto di vista adattivo.
Il soggetto in questione non ha una morale forte, dal punto di vista dell’identità personale, ma ha un’identità sociale tale per cui deve avere una morale d’acciaio, rigidissima. Ed è un disastro dal punto di vista relazionale. Una di quelle persone sgradevoli al primo impatto ed intollerabili al secondo. Vi lascio immaginare al decimo impatto cosa si prova…….. Dal punto di vista delle relazioni professionali, non è il massimo della diplomazia e gioca il ruolo del guerriero inerme. Ti assalgo a mani nude, ma ti assalgo sempre: il suo motto.
Eppure, è una garanzia per un compagno…..una donna con un imperativo morale così forte, se la sposerebbe il mondo intero.
Perchè tutti vogliamo accanto a noi qualcuno che abbia la morale che noi non abbiamo.
Tutti vogliamo garanzie e la garanzia massima la abbiamo (o pensiamo di averla) quando chi è al nostro fianco sembra ispirarsi a principi morali solidi e socialmente condivisibili. Quando poi tutta la vita di questa persona è perfettamente in linea con i suoi principi, allora ci sentiamo in una botte di ferro.
E diventiamo infelici.
Nessuno nasce per essere rigido o rigidamente determinato. Nessuna morale guida l’Uomo più dell’imperativo adattivo. E vivere secondo morale rende l’adattamento improduttivo. La perdita peggiore? Non diventare mail ciò che effettivamente siamo: restare infanti in balia del temperamento.
Le cose che non sciegliamo in parte ci determinano, ma chi ha l’ultima parola su tutto è la flessibilità delle scelte che compiamo in vista dell’adattamento (biologico, sociale, intrapsichico..).
 
Ciò che ho visto è l’esatto contrario di ciò per cui siamo stati creati. Ho visto una marea di rigidità ed infelicità auoinferta.
Ho visto le persone incollate ai blocchi di partenza, che credevano di correre come schegge.
Peccato. Un vero peccato. Perdersi così tanto dietro a criteri che sembrano "giusti", ma in realtà sono solo vantaggiosi. Criteri di cui ci si fa vanto in pubblico e che hanno come vera ragione l’evitarci il senso di colpa.
Noi siamo molto più infimi di come crediamo di essere. Siamo molto più animali di come pensiamo di essere.
Ma siamo anche capaci di renderci più felici di quanto crediamo di poter fare.
 
Buona evoluzione a tutti.
 
 
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La nuova mania

Si chiama Facebook. Anche io caduta nella rete grazie a quel bel visino di Miriam che con le sue ditina mi ha inserita anche lì!
La cosa bella? E’ che effettivamente c’è il mondo su facebook, quindi ritrovi tempo niente persone che erano 12 anni che non vedevi sentivi etc e scopri dove sono, cosa fanno, cosa non hanno fatto, in tutto quel tempo.
Io ho ritrovato un’amica e compagna di casa dello studente. Una di quelle persone di cui, nei vari cambi di cellulare, perdi ogni traccia e la sola cosa che sai è che sta da tutt’altra parte dell’Universo conosciuto! Poi, ti arriva un messaggio di posta, mentre cerchi di capire se le foto le hai caricate o spedite al Presidente della Repubblica, apri e leggi: "Ciao ma sei proprio tu!!!". E tu non ci credi…non è vero… porca miseria, ho cercato anche sul web… che fine avevi fatto…e poi basta un social network e ti accorgi realmente che il futuro è lì.
Nei social network. E ti accorgi che il futuro è presente.
Come i ricordi.
 
Ritrovi ex-fidanzati, ex-coinquiline, le amiche che stanno a parecchi chilometri da te, colleghi di lavoro nella loro veste "natural". Scopri che la gente viaggia, anche con la mente. Peccato che sia tutto poco reale. A me lo schermo del pc inibisce ugualmente.
 
Il limite di Facebook???? è incasinatissimo. Non è intuitivo. Probabilmente perchè è carico di applicazioni.
Geniale chi lo ha creato, geniale chi lo sviluppa, geniale chi lo mantiene.
 
Bene.
Parte di me, quindi, sta anche lì. La parte più immediata, quella meno meditativa (da pippone). La meditazione sta in Livespace.
Poi, diventerò schizofrenica, ma è il bello di internet: metti le mani ovunque, sei mille persone, e solo tu sai chi c’è al di qua del monitor del pc.
 
Notte a tutti! 🙂
 
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MSBP

Ossia, Sindrome di Munchhausen per procura.
E’ diventata famosa dopo le rivelazioni di Eminem (bravi, il solo rapper bianco a guadagnare come un rapper nero) sulla follia della madre.
Miete vittime come la peste ed è praticamente irriconoscibile.
Tenuta in piedi non solo dall’idea incrollabile della bontà della figura materna, ma anche dall’accanimento con cui generalmente e ciecamente il mondo medico si scaglia contro qualsiasi forma di reale o supposta patologia fisica, rende un bambino schiavo delle altrui mani.
Leggete "Malata per forza" di J. G. e vi renderete conto di quanta menzogna e quanta manipolazione stia dietro alla preoccupazione materna. E’ il sottofondo di ogni preoccupazione, a ben pensarci. Mi spiego: quando una persona si preoccupa per un’altra non è mai completamente disinteressata ed orientata all’altro. La preoccupazione e, soprattutto, la manifestazione verbale della preoccupazione sono due forme molto subdole di egoismo. Mi preoccupo non per il tuo bene, ma perchè il tuo male potrebbe intaccare il mio bene. Questo perchè sviluppiamo la capacità di preoccuparci per gli altri come reazione ad un senso di colpa che, guarda caso, ha a che fare con il desiderio di distruggere la figura principale di cura. A sua volta, questo desiderio è la reazione (sempre inconscia) all’angoscia generata dalla paura di essere annientati dalla figura di cura (madre, padre, nonna….. dipende da chi si prende cura del bambino).
L’aspetto positivo di tutto questo giro di angoscia-paura-aggressività-colpa è che pone le basi per sentimenti positivi e soprattutto per l’indipendenza della persona dalle figure genitoriali. Parafrasando De Andrè: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.
 
I figli spesso sono strumenti. Nella MSBP, il figlio non è il solo strumento attraverso il quale la madre attira attenzione e ripropone le violenze subite nella sua infanzia.
Tutto il mondo attorno alla diade è palesemente violento. Cosa molto singolare, che mi ha colpita, è proprio la chiarezza con cui la violenza si esprime nell’ambiente attorno alla diade. Parlo di violenza familiare, ma anche di violenza del contesto sociale.
Mi verrebbe quasi da pensare che, a differenza di altri sindromi, quella di Munchhausen sia la "sindrome dei bassifondi". Chi vive al limite della sopravvivenza non può permettersi sindromi come quelle dei DCA, evidentemente. Si può rifiutare solo ciò che si ha a disposizione, probabilmente.

Al di là delle riflessioni epidemiologiche, psicologiche e sociologiche, e dei pipponi con cui vi posso tediare per giorni interi, vi consiglio il libro per un solo motivo: la protagonista ce la fa.

Ok, lo so che a me le "sopravvissute" piacciono particolarmente, ma non è il solo motivo che mi ha reso simpatica la protagonista.
In tutta la follia, lei rimane ancorata alla realtà (per quanto le è possibile). Poteva serenamente diventare una disadattata, invece lotta da subito per la sua indipendenza e capisce che il mondo reale (quello del lavoro) è la sola strada.
Si rimbocca le maniche, si scinde in mille parti, ma rimane lucida. Dal punto di vista del comportamento sociale, intendo.
Dal punto di vista interiore, quello che fa a se stessa è un vero e proprio miracolo. Potrebbe diventare un caso clinico su cui spendere milioni di parole in carta stampata. Perchè effettivamente è anomalo il suo processo di "guarigione", ma è ancora più anomalo il suo processo di "permanenza lucida" nella malattia.
Insomma, più che una sopravvissuta è un’eroina.
 
Ho chiuso il libro, ieri sera, pensando che si può davvero uscire fuori da qualsiasi tunnel. Non è vero che basta volerlo. E’ vero che bisogna essere infinitamente forti, in qualche modo, per non lasciarsi disintegrare dalle brutture del mondo. Qualsiasi esse siano e chiunque sia il perpetratore.
Mi sono sentita fortunata e forte pure io, ieri sera. Per vicende personali e per gli ottimi risultati ottenuti (ottimi in relazione a quello che è il risultato standard di talune vicende).
Un tempo pensavo che ogni persona nascondesse al suo interno un "eroe" e che questo eroe venisse fuori nelle situazioni più estreme, come tutela o salvezza.
Nel tempo, mi sono ricreduta, ma ci sono storie come quella di J.G. che mi fanno credere che solo una piccola parte di chi vive in situazioni estreme (siano esse psicologiche o materiali) riesce a sviluppare un eroe interiore e ad utilizzarlo nei momenti opportuni. Per tutti gli altri, c’è solo da attivare la preoccupazione nelle sue conseguenze positive: attenzione e cura.
Cito una psicologa di mia conoscenza: "sono arrivata fino a qui con il desiderio di dare agli altri ciò che di positivo è stato dato a me. Se sono qui oggi a fare il mio lavoro, è perchè un tempo qualcuno mi ha distrutta e qualcun’altro mi ha aiutata a ricostruirmi. E mi ha regalato mille opportunità. Ed altrettante me ne sono creata io. Ed è quello che ho sempre inteso ed intendo dare a chi mi gira attorno: attenzione, cura ed opportunità. Non solo perchè faccio il mio lavoro, ma perchè, prima di tutto, sono una persona".
 
 
 
 
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